Di Andrea Stanchi, Avvocato.
Premessa.
L’articolo che segue adotta uno scenario distopico (ma non cosi tanto), una rappresentazione in stile “faction”, per descrivere l’attimo in cui una previsione dello Statuto dei Lavoratori, che compie il 23 maggio 2020 i suoi primi 50 anni, nata nel mondo pienamente analogico (e che non poteva ipotizzare la sua evoluzione digitale), incontra per la prima volta la nuova realtà digitale. In questo incontro, in questo momento cruciale del passaggio tra Antropocene e Novacene, è racchiusa la genialità della previsione (forse la più innovativa e longeva, in termini culturali, dello Statuto), che -nell’interpretazione proposta da uno dei suoi autori- si dimostra McLuhan compliant, cioè già pensata per adattarsi alla realtà digitale in cui è il medium che fa il messaggio.
Una previsione perfetta anche sotto il profilo del metodo: previsione generale idonea a comprendere tutte le condotte, come deve essere la legge.
Ma anche una previsione che fa scelte coraggiose che oggi, in un tempo di accelerazione digitale verso la singolarità, vanno rimeditate nella loro preveggenza: culturalmente umanistica e dettata dall’amore per l’uomo.
Un modello normativo pensato in un tempo piccolo (1970) per un mondo piccolo, il rapporto di lavoro, ma che nella sua modularità normativo-culturale è idonea ad essere scalabile anche alla generalità dei rapporti della cittadinanza digitale (e primo fra tutti quello della relazione tra cittadino e Stato).
La narrazione segue un metodo di mix&match combinando spunti da autori letterari (coi quali ci scusiamo, ma a cui abbiamo sempre attribuito la paternità di quanto di creativo abbiano scritto), costruzioni di realtà fantasiose seppure ricavate da spunti dell’attualità (per le quali siamo i soli responsabili), ipotesi normative non reali e realtà vera, fatti accaduti, pareri giuridici reali.
Insomma è un racconto che spera di offrire, in modo godibile, la rappresentazione di un percorso, grande, dell’intelligenza giuridica umana, di uno dei suoi autori e di come sia possibile ipotizzare una relazione umanistica con il futuro, se crederemo -culturalmente- nell’uomo e sapremo scegliere la giusta via di normare tale relazione.
Prologo.
È il 20 maggio 2020. Dal 18 i bar sono di nuovo aperti e si può viaggiare per lavoro. È difficile incontrarsi, soprattutto farlo sembrare per caso. La riunione è segreta e deve rimanere tale. Dal 3 giugno sarà obbligatorio, in tutta Europa, scaricare quest’app, proposta da un’azienda privata, apparentemente sicura, ma potrebbe essere il primo passo verso la perfect cizitenship attraverso il Social Credit System.
Esistevano studi da tempo, ma le voci contrarie si erano levate alte[1].
La pandemia invece aveva messo tutti d’accordo. Il dissenso riscontrato sui social era bassissimo. Limitato a una minoranza di intellettuali indipendenti, qualche Costituzionalista e sporadiche voci della società civile. Era per questo che i loro mandanti (i governi delle principali nazione europee) erano preoccupatissimi. “This enemy is aiming at something greater than instant biowarfare strikes. This enemy is close to having an effective YGMB technology”. Diceva il suo interlocutore, un suo collega. Lei, la Responsabile dei Servizi, era pietrificata. YGBM[2]. Era un gergo fantascientifico da volger del secolo: You-Gotta-Believe-Me. That is, mind control. Weak, social forms of YGBM drove all human history. For more than hundred years, the goal of irresistible persuasion had been a topic of academic study. For thirty years it had been a credible technological goal. And for ten, some version of it had been feasible in well controlled laboratory settings.
La normativa europea sulla protezione dei dati non aveva funzionato. Anzi, il suo sistema di bilanciamento tra diritti era stata la chiave per spianare la strada all’YGBM. Enunciazione del valore etico prevalente, costruzione dell’informazione per la (e sulla) paura e successivo, naturale, bilanciamento[3]. Un’operazione normativamente pulita nella sua eversività.
Era per questo che avevano incaricato il Camaleonte, il white hacker, di trovare la Svolta. Un intervento sul passato, un indirizzamento delle scelte normative più lungimirante che avrebbe consentito di non trovarsi, oggi, in questa condizione….
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- Ma che cosa sta cercando il nostro hacker? Cosa dovrebbe cercare? Forse dovrebbe cercare una norma che fosse stata in grado di prevedere lo sviluppo della tecnologia digitale e orientare diversamente la tecnica di tutela.
Perché è vero che la normativa europea sul trattamento dei dati è in realtà digitale nella precomprensione e nell’ideazione e quindi manipolabile attraverso quella che nel racconto definiamo la YGBM technology (la cui definizione è così calzante ai problemi che viviamo che la prendiamo a prestito da Vinge per lo spazio di queste righe).
Non ha difese vere contro questa deformazione della tecnologia: la volontarietà della dismissione della tutela del diritto del cittadino, che -nel timore rappresentatogli- si adegua al sistema, cedendo il più prezioso dei suoi diritti, quello su cui si è costruita la storia civile dell’uomo, la libertà e soprattutto quella libertà dell’arbitrio che costituisce la differenza con una razza di schiavi e racchiude l’essenza della dignità umana. La storia ci sta dicendo che tutte le attività sono nei dati[4]. I dati racchiudono l’informazione e la storia dell’uomo è evoluzione verso e, oggi, attraverso l’informazione[5]. Seminare o cedere i dati oggi equivale a sperperare il proprio patrimonio. Ma, a differenza del patrimonio che possediamo nell’economia reale, il patrimonio in dati non è evidente. Non è neppure evidente quante informazioni su noi stessi un computer può raccogliere e a quali domande, che noi esseri umani nemmeno abbiamo potuto immaginare di porci, può rispondere[6]. Quanti punti decisori dai dati che seminiamo sono elaborabili e per questa via quanto siamo inconsapevolmente condizionabili nelle scelte (ecco la genialità dell’espressione YGBM Tech)[7]. Ben oltre quel riequilibrio dell’asimmetria informativa che sta alla base della normativa europea sul trattamento dei dati[8]. In questo contesto, il terrore e la natura implicitamente weak e social delle attuali tecnologie digitali sono facilmente convogliabili su scelte conformative. Mind control. Foucault prima, Deleuze, D. Lyon, Z. Baumann, E. Severino[9] poi e più recentemente Byung Chul-Han[10], N. Carr[11], B. Kaiser[12], U. Galimberti[13], C. O’Neil[14], J. Susskind[15] e Shoshana Zuboff[16], tra i molti, hanno stigmatizzato il rischio della deriva connaturata alla tecnologia. La gabbia di vetro. Ma forse calza di più la Rana nell’acqua portata a bollore.
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- Nella sua ricerca, forse, il nostro narrativo hacker, il Camaleonte, per mezzo di un computer quantistico che gli consentisse processi di ricerca paralleli anche nel tempo, potrebbe essere stato indotto a curiosare tra le mura di un piccolo studio legale milanese nel marzo del 1984.
Nella sala riunioni di quello studio avrebbe probabilmente rintracciato un avvocato giuslavorista che leggeva un parere che l’avvocato e professore Gino Giugni aveva redatto, su incarico di quell’avvocato milanese nell’ambito della strategia difensiva concordata con il cliente, pro-veritate per difendersi della prima importante controversia che riguardava l’applicazione della tecnologia digitale a processi organizzativi del lavoro.
Un giudice penale, un pretore, stava infatti esaminando l’applicabilità e la portata delle previsioni dell’art. 4 del pressocchè nuovo Statuto dei Lavoratori[17] in merito a processi di lavorazione assistiti da tecnologia digitale (nel caso un centralino).
La rivoluzione dei microprocessori (Intel 4004 nel 1971 inizia a cambiare il mondo ed apre la porta a tecnologie digitali miniaturizzabili) aveva iniziato ad ampliare le possibilità di utilizzo delle tecnologie digitali e aveva introdotto l’era dei personal computer (nel 1975 esce IBM 5100, il primo «portable» e nel ‘76 Apple I. È poi solo nel 1981 che riappare il termine PC, con poca fortuna lanciato da Olivetti nel 1968, con l’IBM 5150).
A pagina di 2 di quello scritto il prof. Giugni iniziava il ragionamento rilevando che “risulta pregiudiziale stabilire se sia applicabile l’art. 4, cioè se sussiste la possibilità stessa di controllo distanza; infatti, se il dato fornito dall’elaboratore non dovesse risultare neanche potenzialmente idoneo al controllo, sarebbe del tutto superflua l’ulteriore indagine atta a stabilire se il controllo a distanza sia stata la unica ragione per l’installazione dell’impianto”. Poche righe più in là, addentrandosi nel ragionamento, il giurista stabiliva un ulteriore presupposto logico all’analisi. “A tale proposito è necessaria una precisazione metodologica che riguarda il criterio di riferimento alla stregua del quale deve essere effettuato il giudizio sulla potenzialità del controllo a distanza dell’apparecchiatura. Tale giudizio, infatti, deve essere condotto prendendo in esame non l’idoneità astratta, ovvero intrinseca dell’apparecchiatura, di esercitare il controllo, bensì considerando la sua idoneità concreta al controllo medesimo, derivante dalla modalità dell’utilizzazione dell’impianto. Che sia quest’ultima la delimitazione logica nell’ambito della quale deve effettuarsi il giudizio sulla potenzialità del controllo risulta evidente dal testo della norma stessa, la quale, al secondo comma, prende in considerazione ‘gli impianti di controllo … dai quali derivi anche la possibilità di controllo distanza’. Orbene, la norma in tale modo specifica che non è rilevante che l’impianto sia per definizione considerato ‘di controllo’, bensì che ciò che è necessario è che da esso possa derivarne concretamente la potenzialità del controllo. Tant’è che se il legislatore avesse voluto includere nella previsione normativa tutte le apparecchiature astrattamente considerate di controllo non avrebbe operato la successiva precisazione riguardante la possibilità del controllo distanza”. Proseguiva specificando “se si procedesse diversamente si giungerebbe all’insostenibile conclusione che l’uso di qualsivoglia apparecchiatura, che in astratto possa servire come strumento di controllo, debba avvenire previo accordo sindacale”. E continuava (pag. 5), riferendosi alla tecnologia digitale: “queste argomentazioni valgono tanto più nel caso in esame dove l’apparecchiatura consiste in un elaboratore elettronico, cioè una macchina che, per definizione, è il grado di svolgere più funzioni tra loro diverse e tra le quali può essere compresa anche quella idonea ad essere utilizzata per il controllo a distanza”.
Cioè, poiché la tecnologia digitale si basa su una successione (logica) lineare di comandi scritti in un linguaggio operativo della macchina, che non può saltare passaggi, essa macchina per definizione è potenzialmente idonea al controllo (e diremmo oggi al trattamento dei dati), ma ciò non basta a definirla come una apparecchiatura di controllo a distanza.
Occorre cioè il passaggio ad un “momento logicamente successivo”: l’uso rende l’apparecchiatura idonea al controllo vietato dalla legge (qui c’è l’idea di McLuhan secondo cui è il medium che fa il messaggio e quindi, in digitale, il software che fa la funzione[18]). L’indagine quindi va fatta “sulla concreta utilizzazione dell’apparecchiatura”.
Questa illuminata interpretazione (visionaria, perché idonea, con le categorie della logica, ad includere tutta l’evoluzione tecnologica successiva, senza conoscere nulla della Legge di Moore) di uno degli autori della norma dà conto della lungimiranza nella ideazione di una norma di principio generale[19] che quando venne concepita non poteva avere presente la tecnologia digitale (al momento, nella versione poi divenuta dominante, ancora di là da venire).
Interpretazione logica e come tale destinata ad avere una vita faticosissima (per l’utilizzazione alternativa del diritto che permeerà interpretativamente tutti gli anni ‘80 e ’90), che solo negli anni 2000 la giurisprudenza di legittimità, forzata dal dilagare della tecnologia digitale e dalla comprensione del funzionamento della stessa, ha parzialmente accolto.
Il prof. Giugni poi, “precisato in tal modo l’ambito concettuale entro cui operare il giudizio”, individua i requisiti essenziali che integrano la fattispecie:
- Che il controllo sia eseguito da una macchina;
- Che sia “a distanza” concetto che va intenso in senso spazio-temporale;
- Che si tratti di “controllo”, punto invece nodale (“qualificante della fattispecie”).
Precisa quindi: “infatti, se non si specificasse il significato di controllo e ci si attenesse ai soli criteri della “distanza” e delle “apparecchiature”, si giungerebbe all’abnorme conseguenza di vedere rientrare nella previsione dell’art. 4 qualsivoglia ipotesi di attività lavorativa che lasci una traccia di sé -accessibile al datore di lavoro- attraverso un utensile. E’ evidente che non può essere questa la portata della norma ed è evidente che il criterio effettivamente qualificante della definizione, per mezzo del quale assumono senso compiuto anche le nozioni di ‘apparecchiatura’ e di ‘distanza’, è rappresentato da ciò che si deve intendere per ‘controllo’.” (scritto citato pag. 8).
Specifica poi, “l’attività di controllo, ai fini dell’art. 4, può essere suddivisa in due momenti logici. Il primo concerne l’individuazione dell’attività lavorativa di un determinato prestatore, cioè la possibilità di imputare all’esclusiva attività di quel lavoratore l’attività registrata dall’apparecchiatura. La distinzione tra individuazione del prestatore ed individuazione della sua attività lavorativa tanto più diviene importante in quanto non si tratti di immagini bensì di dati registrati. Nell’immagine infatti è molto più semplice che l’identificazione della persona del lavoratore la coincida con la sua attività lavorativa, mentre riguardo ai dati registrati, anche se è possibile risalire all’operatore, deve porsi particolare attenzione alla circostanza se il dato registrato dalla macchina rappresenti l’esclusiva attività lavorativa del prestatore oppure sia commisto indissolubilmente all’elaborazione della macchina stessa. Ma non basta questa identificazione per integrare ‘il controllo’, perché anche in tal caso si ritornerebbe comunque nell’ipotesi sopra prospettata, e cioè che qualunque ‘traccia’ lasciata dal prestatore su una qualsiasi apparecchiatura, dalla quale possa risalirsi all’attività del lavoratore stesso, debba essere considerata un controllo distanza.
L’attività di controllo richiede invece la possibilità, attraverso quei dati registrati dell’attività lavorativa appartenente esclusivamente quel determinato lavoratore, di operare un esame sui comportamenti e di conseguenza un giudizio sull’attività del prestatore. Non può essere altro che questo il significato di ‘controllo’ in quanto tale termine presuppone qualcosa di più della semplice ed anodina osservazione; esprime, cioè, anche una valenza critico-valutativa senza la quale non ci sarebbe l’attività di controllo stesso ed è proprio tale attività critico-valutativa che il legislatore ha voluto circondare di particolari garanzie poste a favore del prestatore impedendo che essa venga svolta in forme subdole ed odiose”[20].
Occorre però, per terminare l’analisi, verificare cosa sott’intenda il concetto di attività lavorativa nel contesto specifico.
Scrive Giugni, “or bene, se a tale espressione non aggiungessimo successive specificazioni, la conseguenza che, a stretto rigore, dovrebbe dedursi in termini di applicazione dell’art.4 sarebbe nuovamente abnorme” (pag. 10 dello scritto).
Giugni esamina l’esempio del controllo del lavoro della dattilografa la cui attività opera evidentemente a distanza nel tempo, perché il controllo del datore di lavoro avviene sul risultato registrato dalla macchina dell’opera della medesima.
Si potrebbe quindi ritenere, con evidente abnormità, che il lavoro della medesima rientri nella previsione dell’art. 4 SL.
“Il buon senso e la logica respingono tale soluzione, la quale è estranea anche alla ratio della norma. Ed è proprio tale ratio, che mira a tutelare il bene della dignità del lavoratore, ma non priva il datore di lavoro delle possibilità di controllo sulla prestazione lavorativa, che deve essere assunta come criterio per l’interpretazione de ‘l’attività lavorativa’. Ed allora dovrà operarsi una ulteriore distinzione tra controllo sulle modalità della prestazione e qualità della stessa (risultato o prodotto o compito finito). Il controllo -inteso nel senso sopra descritto- a distanza sui ritmi, frequenze, tempi di lavoro, pause, assenze temporanee eccetera (Modalità della prestazione), è oggetto della tutela di cui all’articolo 4 perché diviene inevitabilmente un controllo vessatorio sul comportamento della persona del lavoratore. Di contro, il controllo sulla qualità della prestazione, nella misura in cui l’articolo quattro non elimina il potere della valutazione della prestazione in termini qualitativi da parte del datore di lavoro, è fuori la previsione della norma, la quale, non a caso, si riferisce all’attività lavorativa e non alla prestazione lavorativa, assumendo ad oggetto, in tal modo, quei comportamenti posti in essere dal lavoratore nell’esecuzione della prestazione che attengono più da vicino alla persona e non riguardano, invece, il risultato di tale attività”.
Conclude quindi il giurista “il dato deve essere idoneo a rendere possibile l’esame dell’attività del lavoratore finalizzata all’accertamento della conformità dei ritmi di esecuzione della prestazione concretamente posta in essere con quelli che, in astratto, dovrebbero essere osservati dal prestatore stesso. In altri termini, dall’informazione fornita dal calcolatore si deve poter dedurre la precisa alternanza anche minima tra tempi di lavoro e non lavoro di modo che possono venire in luce le cosiddette micro-pause effettuate dal lavoratore durante l’esecuzione della prestazione”.
- Dalla norma originaria e dalla interpretazione logica così ricostruita, emerge la linearità di un pensiero eccezionalmente elastico e moderno.
La norma, nella sua correlazione tra dato, tempi, attività e persona del lavoratore, delinea quale essenza della protezione (voluta da chi l’ha pensata, anche se -com’è ovvia esperienza di ogni giurista- la norma poi vive, disgraziatamente in alcuni casi, dell’interpretazione a cui il tempo, via via, la consegna) il divieto di quello che oggi chiamiamo profiling.
Divieto assoluto quale precetto essenziale protettivo della liberà e dignità del lavoratore, quale persona umana.
- La correttezza dell’interpretazione fornita dall’eminente giurista, se mai potesse averne bisogno, viene confermata da un altro parere pro-veritate che sempre in quello studio legale, sempre quell’avvocato, sarebbe stato visto leggere dal nostro narrativo hacker, nel maggio di quello stesso 1984.
L’avvocato prof. Cesare Grassetti, eminentissima figura dell’Accademia e della Professione milanese, dopo avere chiarito, esaminandone la ratio, che “l’art. 4 non ha inteso eliminare quel potere di controllo che il datore di lavoro ha, in quanto creditore della prestazione lavorativa, sulla quantità e sulla qualità della prestazione medesima”, precisa che “ciò che l’articolo quattro ha inteso vietare (1° comma) o sottoposto a particolare disciplina (2°comma) è quel tipo di controllo che, per i modi in cui attuato, lede la dignità del lavoratore e la sua sfera di riservatezza: e cioè quel controllo assillante, attuato di continuo, ‘minuto per minuto’, sulle attività del lavoratore, tale da rilevare con precisione i ritmi del lavoro, le pause, le assenze momentanee, e dunque tale da incidere, nella sostanza più sulla persona del lavoratore che sulla prestazione lavorativa. Oltre a ledere la dignità e la riservatezza del dipendente, il quale si sente in buona sostanza spiato mentre lavora, un siffatto controllo può arrecare pregiudizio alla stessa produttività del lavoratore, in quanto egli, sapendo di essere sottoposta a controllo a distanza può essere indotto ad assumere comportamenti ed atteggiamenti innaturali” (pagina 5 del citato scritto).
Tutti e due i giuristi arrivano alla conclusione che ciò che, nella relazione con la tecnologia relativa non ad audiovisi (analogici allora, in cui il problema era evidentemente più semplice), ma al trattamento di dati digitali, la norma vuole escludere è la profilazione del lavoratore in sé (quindi non rapportata al giudizio consentito su qualità e quantità quali risultato della prestazione commessa).
Perché una tale profilazione degrada la dignità umana, comprime la libertà di arbitrio e induce l’uomo –spiato– ad assumere atteggiamenti innaturali.
- Wow, tanta roba! Penserebbe il nostro narrativo hacker. “Forse ho trovato quel che mi serve”.
Il nostro strumento narrativo infatti, nello scivolare nel tempo, ha certamente avuto modo di fare buone letture e di farsi un’opinione, professionalmente s’intende, rispetto all’incarico che gli hanno commissionato.
Visto il suo mestiere, sa che data are the coin of the realm. Conosce anche le parole di Galimberti e sa che “per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è più oggetto di nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi ed ideazioni, condotte, azioni, passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi”.
“Per questo abitiamo irrimediabilmente la tecnica e senza scelta. Questo è il nostro destino di occidentali avanzati, e coloro che, pur abitandolo, pensano ancora di rintracciare un’essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico, come capita di sentire, sono semplicemente degli inconsapevoli che vivono la mitologia dell’uomo libero per tutte le scelte, che non esiste se non nei deliri di onnipotenza di quanti continuano a vedere l’uomo al di là delle condizioni reali e concrete della sua esistenza”[21].
Ha chiarissimo ed, anzi, ha sfruttato nella sua brillante carriera che “attraverso il medium digitale noi (ndr. esseri umani) siamo riprogrammati, senza comprendere pienamente questo radicale cambiamento di paradigma. Arranchiamo dietro al medium digitale che, agendo sotto il livello di decisione cosciente, modifica in modo decisivo il nostro comportamento, la nostra percezione, la nostra sensibilità, il nostro pensiero, il nostro vivere insieme. Oggi ci inebriamo del medium digitale, senza essere in grado di valutare del tutto le conseguenze di una simile ebbrezza. Questa cecità e il simultaneo stordimento rappresentano la crisi dei nostri giorni”[22].
Non può fare a meno di accorgersi quanto le interpretazioni di quei giuristi assegnino a quella norma una eccezionale capacità regolatrice e quanto riecheggi in esse il civile monito di A. Solzenicyn: “la nostra libertà si regge su quello che gli altri ignorano della nostra esistenza”.
I pensieri che si affollano nella sua mente non si fermano qui. Il Camaleonte conosce il funzionamento della tecnologia. Lui, meglio di tutti -l’hanno scelto proprio per questo- knows “how to speak machine”[23], e sa che “la sorveglianza nell’età dell’informazione è informazione resa incorporea, è selezione attuata attraverso programmi informatici e tecniche statistiche. E’ il prodotto di una duplice adiaforizzazione, in cui non solo il processo di categorizzazione annulla la responsabilità, ma è lo stesso concetto di informazione utilizzato a ridurre l’umanità della persona categorizzata, indipendentemente dal fine”[24].
Il nostro hacker capisce perché la Responsabile dei Servizi e gli altri sono preoccupati. La normativa sul trattamento dei dati personali non sembra prospetticamente in grado di proteggere completamente l’uomo nell’evoluzione che si profila.
È proprio la tecnica con cui è costruita e la sua funzionalizzazione (presente anche nell’art. 4, secondo comma, ma con il correttivo di cui infra), volta a consentire lo sviluppo della società dell’informazione, che la rende scalabile a chi voglia abusarne.
Del resto è sempre così: sono le regole pensate, lealmente, per la democrazia che consentono di scalarla, abusivamente, e farla scomparire.
La trasparenza funzionalizzata ad uno scopo nobile, motivato dalla tirannia dei valori, in realtà espone la dignità umana al suo schiacciamento, pensa il Camaleonte.
Lo sa: “l’obbligo di trasparenza riduce l’uomo a un elemento funzionale di un sistema”[25]. E sa che questa è la sottile violenza, poco percepita, del tempo in cui vive.
Sa anche che i collegamenti tra deep learning e neuroscienze ormai consentono di creare algoritmi che ci capiscono meglio di quanto noi comprendiamo noi stessi “and can therefore manipulate me, enhance me or replace me”[26].
Sa che “once you dress something up as an algorithm or as a bit of artificial intelligence it can take on this air of authority that makes really hard to argue with”[27].
Il nostro hacker conosce abbastanza la tecnologia e le sue linee di sviluppo per sapere che condizionare le regole di evoluzione dell’intelligenza artificiale è un utile, tranquillizzante, utopia, ma che l’evoluzione delle intelligenze favorisce sempre quella superiore. Quest’ultima trova sempre la via per svincolarsi dai limiti impostile. La storia dell’Antropocene ne è la prova e non c’è ragione di pensare che non sarà la regola anche del Novacene[28].
- È così che il Camaleonte arriva a comprendere la fondamentale correttezza e coraggiosità di quella norma.
Di quell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori pensato in un tempo tanto lontano e così poco digitale, pensato nell’ambito di una relazione “semplice” quale quella di lavoro, a tutela di diritti fondamentali enucleati in un momento storico in cui quella relazione “semplice” era destinata ad essere di frontiera rispetto alle evoluzioni del mondo industriale.
Forse per relazionarsi con un mondo in cui i dati sono il valore, e lo sono rispetto ad un fascio di indeterminabili relazioni complesse, un mondo in cui tutto si può ricondurre ad informazione e in cui l’asimmetria tra chi possiede i dati e chi li raccoglie non è solo informativa, ma è una asimmetria radicale di possibilità addirittura di conoscere se stessi e quindi di sviluppare il proprio potenziale umano. Forse in questo mondo la difesa dell’umanità dell’essere sta nel fare scelte essenziali e coraggiose.
Scelte che, come nella combinazione di quell’art. 4 con il successivo art. 8 dello Statuto dei Lavoratori, che esclude dal novero del trattabile tutto ciò che non è contestualizzabile con l’attitudine al lavoro, vietano radicalmente la raccolta di dati da cui si possa fare la profilazione della personalità di un essere umano (cittadino?), ricostruirne una immagine sintetica, a prescindere dalla giustificazione funzionale di una tale esigenza e di ogni possibile bilanciamento di valore. Perché un valore più alto della libertà di essere umani non c’è.
Non semplicemente condizionarla a modalità, scopi e consensi. Scelte come quelle di quella norma del 1970 scritta da giuristi digiuni di machine, ma ricchi di capacità logica, cultura umanistica e intelligenza.
Forse la tecnica normativa utilizzata -per principi rigorosi ma adattabili e la rimessione del controllo non ad un organo emanazione dello Stato, come le Authority (della cui costituzionalità anche il nostro hacker ha sempre dubitato, checchè ne scrivessero alcuni giuristi o giudici), ma emanazione dei corpi sociali intermedi (sul modello di quel comma 2 dell’art. 4, ma con gli ovvi adattamenti di contesto)- è la via ragionevole per rimettere la società umana nella condizione di esprimere un proprio reale orientamento sull’evoluzione, altrimenti nelle mani di pochi.
Ecco si, penserà il Camaleonte, forse questo viaggio nel tempo gli ha consentito di trovare non una norma ma un metodo.
Forse la lotta ad una nuova arrembante intelligenza si può fare con una vecchia ma saggia, colta, umanistica, intelligenza.
Forse il percorso va solo reindirizzato.
Forse il mondo è davvero (quantisticamente) come ce lo facciamo, pensa, mentre rientra al maggio 2020, forse ….
[1] European University Institute, Robert Schuman Centre for advanced studies, Global Citizenship Governance
H_o_w_ _t_o_ _M_a_k_e_ _t_h_e_ _P_e_r_f_e_c_t_ _C_i_t_i_z_e_n_?_ _
L_e_s_s_o_n_s_ _f_r_o_m_ _C_h_i_n_a_’s_ _M_o_d_e_l_ _o_f_ _S_o_c_i_a_l_ _C_r_e_d_i_t_ _S_y_s_t_e_m_ _
Liav Orgad and Wessel Reijers, RCAS 2020_28.
[2] Tutti i corsivi in inglese e la definizione YGBM, geniale, sono citazioni -estrapolate ovviamente, ma forse non troppo, dal loro contesto- del magnifico romanzo visionario di Vernon Vinge, Rainbows end, pag. 14 della versione Kindle, Tor Book, Tom Doherty Associates, LLC, New York, 2006. Il Prologo all’articolo, invece, ne prende a prestito qualche idea, prende a prestito qualche idea dall’attualità, la reinventa, certo la adatta alle esigenze di introdurre uno storytelling il cui scopo è raccontare il ragionamento giuridico di un grande giurista -l’unica parte fedele alla realtà del testo- che illustra una norma nel momento in cui giurista e norma, per così dire, cominciano a intravedere l’innovazione digitale. Speriamo che la lettura sia piacevole.
[3] C. Schmitt La tirannia dei valori, con saggio illustrativo di F. Volpi, Anatomia dei valori, Milano 2008.
[4] J. Kaplan, Le persone non servono, Roma 2016.
[5] C. Hidalgo, L’evoluzione dell’ordine, Torino 2015; J. Lovelock, Novacene, Bologna 2020.
[6] AlphaZero e il gioco del Go o il computer programmato dagli scienziati di Singapore che prevede la percentuale di probabilità di infarto solo guardando negli occhi un essere umano, stabilendone il genere; cfr. es. Novacene, cit. 351 da Kindle.
[7] Alla opera di S. Zuboff, v. infra, si può aggiungere la riflessione del prof. G. Ziccardi, Tecnologie per il potere, Milano 2019. Cfr. anche C. Critchlow, The Science of Fate, Londra 2019.
[8] Cfr. la meravigliosa sintesi delle logiche normative scritta da S. Rodotà in prefazione alla Società Sorvegliata di Lyon, Milano 2003.
[9] N. Irti E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Bari 2001
[10] Nello Sciame e La Società della trasparenza, Nottetempo 2015
[11] La gabbia di vetro, Milano 2015
[12] la dittatura dei dati, Milano 2019
[13] Psiche e Technè, Milano 2009
[14] Armi di distruzione matematica, Firenze 2017
[15] Future Politics, Oxford 2018
[16] Capitalismo della Sorveglianza, Milano 2019
[17] La norma, rubricata Impianti Audiovisivi, recitava:
1.È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (Art. 4, primo comma);
2.Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro (ora Direzione Provinciale Del Lavoro), dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti. (Art. 4, secondo comma).
- Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondano alle caratteristiche di cui al secondo comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, l’Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, dettando all’occorrenza le prescrizioni per l’adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti.
- Contro i provvedimenti dell’Ispettorato del lavoro, di cui ai precedenti secondo e terzo comma, il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale.
[18] Cfr. anche A. Contri, McLuhan non abita più qui?, Torino 2017; per la illustrazione, complessa, del tema sia consentito rinviare a http://www.csdn.it/relazioni/174-privacy-e-controlli-difensivi-sui-lavoratori-apparecchiature-di-controllo-strumenti-di-comunicazione-elettronica-e-controlli-difensivi-del-datore-di-lavoro-diritti-e-doveri-della-digital-citizenship-nel-digital-workplace, Vicenza 2008.
[19] Sulla importanza nel diritto di regole generali e di principio piuttosto che particolari, come quelle degli ultimi trent’anni, cfr. F. Schauer Di ogni erba un fascio, Bologna 2008.
[20] Tutte le sottolineature e i virgolettati interni vengono sempre dal testo originale trascritto.
[21] Umberto Galimberti, Psiche e technè, cit..
[22] Byun-Chul Han, Nello Sciame, 2015
[23] J. Maeda, How to speak Machine, Londra 2019
[24] D. Lyon -Z. Baumann, Sesto potere, Milano 2006
[25] B.C. Han, La Società della trasparenza, cit..
[26] Y. N. Harari F-F Li, Artificial Intelligence: four questions that impact all of us, Intervista B. Bowell, 29 maggio 2019
[27] H. Fry, Hello World, Bologna 2018
[28] J. Lovelock, Novacene, cit. 398 e sgg. in Kindle.